Mente e cibo: pensiero, sapori, sensi di colpa, piacere, quanto ingrassiamo possono influenzarsi a vicenda
Il cibo non è fatto solo di proteine, carboidrati, lipidi, vitamine e minerali. Il cibo è fatto anche del rapporto che noi abbiamo con quello che mangiamo.
Ovviamente i pensieri e le emozioni che proviamo non possono modificare la struttura di una mela ma, come vedremo, ne possono variare significativamente gli effetti sul nostro metabolismo. Solo il pensiero di un certo piatto può far emozionare una persona e inorridire un’altra.
Queste reazioni modificano la nostra neurobiologia interna, che influenzerà il modo in cui processeremo quel cibo e i suoi costituenti. Questo rapporto è a due vie: non solo la nostra mente può modificare il sapore e la digestione del cibo, ma anche uno specifico sapore o una sensazione in bocca possono attivare in noi risposte emotive e comportamentali specifiche.
Un esempio della prima via (dalla mente alla percezione) viene da uno storico esperimento svolto nella scuola di sommelier di Bordeaux: un sommelier ha preso due bottiglie di vino bianco identiche, ma una l’ha colorata in modo che sembrasse vino rosso, pur mantenendo inalterato il sapore.
Tutti gli allievi e tutti i professori esperti degustatori hanno valutato i vini come differenti. Anni dopo il primo esperimento, la procedura è stata ripetuta eseguendo in contemporanea una risonanza magnetica funzionale. La scoperta interessante è che non si trattava di “sola” suggestione mentale: alla vista del colore (rosso o bianco) del vino il cervello pre-allertava le aree dedicate ad elaborare quel sapore, falsando proprio il processo a livello neurologico.
Un esempio della seconda via (dalla percezione alla mente) riguarda la possibilità che hanno certi sapori e sensazioni della bocca – come la grassezza, l’untuosità, la cremosità, ecc. – di attivare i centri del piacere. Si tratta di un meccanismo evolutivo importante, sviluppato in periodi in cui non era comune mangiare tutti i giorni e concentrarsi sui grassi permetteva l’accumulo di energie a lunga durata.
Il rapporto tra mente e cibo nasce e si sviluppa con ottime finalità evolutive e di adattamento. Il problema è che al giorno d’oggi sono cambiati molti aspetti personali e contestuali, per cui certi meccanismi perdono di senso o vengono costantemente ingannati.
Questo processo può portare a significativi svantaggi: non sapere più distinguere i cibi sani da quelli che non lo sono, ricercare avidamente un cibo mentre in realtà si sta solo cercando una sensazione o un effetto sul sistema nervoso, ingerire più cibo del necessario, attivare processi emotivi, mentali, comportamentali e metabolici disfunzionali. Non solo, in questo modo si alterano tutti i processi percettivi, interocettivi, di auto-regolazione e integrativi alla base della nostra vita.
Come funziona
Cosa succede quando guardiamo un piatto di cibo e proviamo disgusto, piacere, desiderio o senso di colpa?
Dal punto di vista del sistema nervoso entrano in gioco tutte le aree: quando stiamo per mangiare un piatto di pasta il suo concetto e la sua rappresentazione prendono forma a livello della corteccia cerebrale.
Queste elaborazioni più cognitive interagiscono con il sistema limbico, dove prendono forma le emozioni e le spinte motivazionali primarie, che devono fare i conti con le strutture ancora più arcaiche che gestiscono le regolazioni di base, come fame, sete e altre funzioni vitali. In tutto questo processo interagiscono diversi sistemi in ogni distretto del nostro sistema nervoso, dalla memoria all’immagine di sé, dal network della sicurezza a quello previsionale, fino ai diversi meccanismi di problem solving.
Nel mediare ed integrare tante informazioni svolgono un ruolo centrale l’ipotalamo e l’insula. Il primo in particolare integra le attività della mente con i processi biologici del corpo. Se il piatto di pasta è il nostro preferito e lo mangiamo con una certa soddisfazione, l’ipotalamo modulerà questo segnale positivo tramite l’attivazione – attraverso il parasimpatico – di ghiandole salivari, esofago, stomaco, intestino, pancreas e milza.
In altre parole la digestione viene attivata correttamente e i nutrienti processati nel modo più efficace possibile.
Viceversa se ci sentiamo in colpa o se ci giudichiamo negativamente per aver deciso di mangiare un piatto di pasta di cui non eravamo convinti, l’ipotalamo elabora questi input negativi e invia segnali al sistema simpatico. In questo modo si attivano risposte inibitorie del sistema digerente, che non permetterà di metabolizzare correttamente quello che stiamo ingerendo, richiedendo più tempo per essere digerito, alterando il microbiota intestinale e incrementando il rilascio di prodotti di scarto tossici a livello circolatorio. Tra l’altro in questo modo l’aumento di insulina e cortisolo portano anche a “stoccare” maggiori quantità di grasso.
Al di là della spiegazione neurobiologica è facilmente intuibile il significato evolutivo di questo meccanismo: di fronte a un pericolo non ha senso nutrirsi, ma è primario combattere o scappare. Il nostro asse dello stress reagisce in modo simile di fronte a un orso che ci vuole aggredire o quando viviamo un conflitto interno del tipo “vorrei mangiarlo ma sono a dieta”.
Mangiare in situazioni di stress non ha senso, il corpo non è predisposto per quel tipo di attività. Solo quando sarà tornata la calma il corpo sarà di nuovo predisposto a nutrirsi.
Quando appena descritto è molto importante e ha ricadute in diversi ambiti.
Il primo più evidente aspetto riguarda i nostri pensieri e le convinzioni rispetto al cibo: è fondamentale possedere informazioni chiare e corrette, invece di vecchie generiche informazioni.
Ad esempio è utile conoscere il reale senso del colesterolo (che non è “il nemico dei nonni!”); valutare adeguatamente l’importanza dei grassi per il nostro benessere, distinguendone le tipologie e le quantità; considerando la cucina come un’arte, ma anche una scienza, ad esempio non fermandosi all’idea che l’olio di oliva è più sano del burro, ma considerando di entrambi la qualità, se vengono cotti al di sopra del loro punto di fumo, l’interazione con altri ingredienti della specifica ricetta in cui li usiamo e altri fattori che ne possono cambiare totalmente gli effetti da positivi in negativi e viceversa; fare attenzione alla cosiddette RDA (quantità giornaliere consigliate di certi nutrienti) che sono troppo spesso usate sulla base dei consigli del marketing delle aziende alimentari invece che con il buon senso.
Il secondo ambito riguarda le nostre emozioni rispetto al cibo, ma non solo.
Infatti il processo di attivazione dell’asse dello stress sopra descritto può avvenire sia che ci sentiamo in colpa nel mangiare un cibo grasso, sia perché pensiamo durante tutto il pasto al collega che ci ha fatto arrabbiare. Ricordiamoci che l’amigdala, nella sua attività di valutare gli stimoli potenzialmente pericolosi in ingresso, fa poca distinzione tra reale e immaginario.
Usiamo il lato positivo di questo “baco”: concentriamoci su pensieri positivi e, se ormai lo stiamo mangiando, godiamoci quel bel cibo grasso!
Conoscere i processi neurobiologici delle emozioni e trovare soluzioni pragmatiche per i diversi passaggi può fare la differenza per chi lavora con le emozioni e le sue disfunzioni.
Proprio in questo periodo stiamo raccogliendo i dati di una ricerca svolta paragonando i tipici biomarker dello stress in popolazioni con differenti abitudini alimentari, distinguendo in ogni gruppo i diversi stili emotivi durante i pasti: rilassati, di corsa, goderecci, in colpa, orientati al fitness. Dalle prime analisi sembra proprio confermata l’idea che mangiare in modo salutare ma in condizioni emotive negative annulli praticamente tutti i vantaggi di questo tipo di dieta.
Un’implicazione non da poco di questo punto riguarda lo stile relazionale a tavola e le sue implicazioni a lungo termine. Sgridare un bambino perché non mangia è il modo migliore per non farlo mangiare. Allo stesso modo guardare il telegiornale durante i pasti attiva l’asse dello stress. La musica a ritmo serrato, la parlata incalzante e il contenuto delle notizie sono costruite apposta per creare tensione. Basta misurare qualsiasi parametro vitale a riposo e nelle stesse condizioni ma con un telegiornale sullo sfondo per rilevare significative variazioni. Si tratta di indicazioni fondamentali per chi si occupa di educazione, cura, sviluppo o relazioni evolutive.
Il terzo livello, quello più pervasivo, riguarda l’impatto su tutta la fisiologia. Mangiare in fretta, non sentire i sapori, avere la mente sempre impegnata cognitivamente e/o emotivamente altera tutte le funzioni (percezione, pensiero, emozioni, comportamenti, motivazione, decisione, memoria, ecc.) e le relative strutture (sistema nervoso, immunitario, ormonale, ecc.). Questo porta a non filtrare più correttamente le informazioni in ingresso, a non sentire più i segnali del corpo, ci porta a sovraccaricare i processi logici a scapito di quelli interocettivi ed empatici.
Un corretto rapporto con il cibo, la sensazione, il piacere ci permette di riattivare questi processi, riportarli in fisiologia, riattivare meccanismi rigenerativi – sia a livello fisico che mentale – fondamentali per il nostro benessere.
In questo articolo ci siamo concentrati sul cibo, ma si tratta di meccanismi attivi anche nelle percezioni corporee, in quelle piacevoli e nelle attività che sviluppano consapevolezza e padronanza nella loro accezione più profonda.
Abbiamo individuato due filoni principali per sistematizzare questo tipo di azioni.
È possibile agire sulle abitudini, su forme alternative di pensiero (quello ideografico in primis), sui propri ed altri bisogni ancestrali, sulle dinamiche mente-corpo nelle emozioni e nelle relazioni, sui processi psicosomatici di base. [Approfondisci]
È possibile partire proprio dal lato sensoriale ed esperienziale legato al cibo e al movimento, sperimentando modalità espressive e relazionali , coltivando modalità di essere basate sulla naturalezza. [Scopri di più]
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